Da gennaio sarà attiva la piattaforma nazionale per i servizi di telemedicina: con questo termine si intendono tutta una serie di attività diagnostiche (come elettrocardiogrammi e spirometrie) che sarà possibile svolgere “a distanza”, con l’obiettivo di rafforzare la medicina del territorio. Poter svolgere questi servizi a distanza, infatti, faciliterebbe la presa in carico da parte delle cure territoriali, colmerebbe il divario tra i territori e integrerebbe i servizi sanitari regionali e le piattaforme nazionali, migliorando la qualità clinica e l’accessibilità ai servizi sanitari. Ma è davvero così?
Innanzitutto c’è da dire che la telemedicina, al momento, è un servizio per così dire “deregolamentato”: non essendoci una normativa precisa su questa modalità innovativa chiunque può in linea di principio svolgerla. Di conseguenza sorge la prima domanda: chi referterebbe, validandolo, un esame svolto in questo modo? Se lo facesse un professionista che non dialoga con chi conosce la storia clinica del cittadino, le sue condizioni pre-esistenti e i suoi sintomi attuali non potrebbe certo ottenere lo stesso livello di conoscenza complessiva del suo medico di famiglia, e questo lascerebbe aperta la porta a possibili errori nel percorso di cura.
Seconda e forse più importante domanda, chi pagherebbe per questi servizi? Già ora in Italia vengono svolte molte prestazioni diagnostiche non giustificate dai dati clinici, gravando sul Servizio sanitario nazionale: se queste prestazioni fossero pagate dal pubblico il fabbisogno della sanità pubblica aumenterebbe ulteriormente, e se fossero a carico dei pazienti i costi andrebbero a sommarsi a quel 24% della spesa sanitaria (41 miliardi di Euro nel 2022) che già oggi i cittadini sostengono di tasca propria. In ognuno dei due casi, quindi, la collettività dovrebbe sostenere questi costi, o direttamente o indirettamente.
Questi aspetti non possono non essere considerati attentamente prima di integrare appieno la telemedicina, che è comunque un’innovazione potenzialmente utilissima, nella sanità pubblica italiana. La cosa da tenere sempre presente è che non può essere sostitutiva di un progetto di cura del paziente, ma va integrata in esso: già oggi in molti ambulatori sono i medici di famiglia a svolgere diagnostica di primo livello, che può quindi agire tramite la sua postazione per avviare un dialogo con gli altri professionisti sanitari o fornire direttamente una terapia. In questo senso un servizio di diagnosi a distanza rappresenta un ottimo “facilitatore” del processo di cura: l’importante è far sì che non lo sostituisca o finisca con l’ostacolarlo.
(Photo credits: Mart Production/Pexels)
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