Senza fornire prove certe un ente pubblico non può rifarsi sui compensi di medici convenzionati - come medici di famiglia e pediatri di libera scelta - per ripianare errori contabili e di gestione dei quali i professionisti non hanno alcuna colpa. È questo, in sintesi, il giudizio con il quale la Corte di Cassazione ha messo fine a un contenzioso che ha visto contrapposti l’ASL Sud-Est e un gruppo di circa 50 medici del territorio senese e che anche nei precedenti gradi di giudizio ha visto i giudici dare torto all’ente pubblico.
“La vicenda comincia nel 2010”, spiega l’Avvocato Stefano Inturrisi, che ha rappresentato i pediatri FIMP, “quando l’ASL riceve il compito di gestire i registri informatici che tengono traccia dei pazienti di tutti i medici libero-professionisti attivi sul territorio: dati molto importanti, perché è sulla loro base che si calcola lo stipendio mensile di ogni medico di famiglia e pediatra che opera in convenzione con lo Stato. Prima di allora queste banche dati erano gestite dalla Regione e da società terze ma, incrociandole, l’ASL si è accorta che i conti non tornavano, col risultato che ad alcuni era stato apparentemente dato troppo e ad altri troppo poco. L’Azienda ha quindi inviato ai secondi un conguaglio e ai primi una richiesta di rimborso che poteva arrivare anche a decine di migliaia di Euro, ma senza fornire dati che la giustificassero”. Di fronte alla richiesta dei medici coinvolti di motivare il rimborso, però, l’ASL ha cominciato a operare trattenute sui loro stipendi. Si è così finiti dinanzi al Giudice del Lavoro di Siena, che ha nominato un consulente tecnico per venire a capo della questione. “Lo stesso consulente, però, ha dovuto constatare che mancava una solida base contabile nei registri, e che quindi era impossibile stabilire dove i conti non tornassero di preciso, e a favore o sfavore di chi. Il Giudice, di conseguenza, ha dato ragione ai medici e condannato l’ASL a restituire i prelievi fatti”, conclude Inturrisi.
“Già dopo questa sentenza”, sottolinea l’Avvocato Duccio Panti, che ha rappresentato i medici di famiglia, “l’azienda avrebbe forse potuto scegliere di abbandonare la via giudiziaria contro i medici, ma non è stato così: anzi, sempre senza fornire prove di questi errori contabili (come riconosciuto nella sentenza della Cassazione n. 22628/2023 pubblicata il 26 luglio) ha fatto ricorso in appello, ricevendo lo stesso giudizio, e poi in Cassazione, con la Corte che non solo ha sancito il diritto dei medici a non dover restituire alcunché, ma ha stigmatizzato il comportamento dell’ASL perché ha insistito nelle sue richieste senza avere prove certe di questi errori contabili. E bisogna tener presente che medici e pediatri, anche volendo, non avrebbero potuto verificare la correttezza dei registri, perché non hanno mai avuto accesso a questi dati. Non potevano, quindi, che fidarsi dell’ASL”.
“Con questa sentenza”, ha commentato Maurizio Pozzi, Segretario provinciale FIMMG (che insieme a SNAMI ha promosso l’iniziativa), “si conclude finalmente una vicenda che ha del paradossale: l’ASL ha ricevuto questi registri e avrebbe scoperto al loro interno errori contabili per centinaia di migliaia di Euro. Senza mai dimostrarli, però, ha scelto di rifarsi non su chi era pagato per gestire queste banche dati, ma su medici e pediatri incolpevoli. Siamo ovviamente molto felici che la Cassazione abbia deciso a favore dei professionisti, ma come cittadini non possiamo che stigmatizzare questa gestione della cosa pubblica. A quanto ne sappiamo l’ASL non ha mai scelto di rivalersi sulle società che gestivano i registri prima del 2010: con ogni probabilità ogni eventuale danno economico provocato da questi errori è prescritto, e quindi passato in cavalleria”.
(Photo credits: Tingey Injury Law Firm/Unsplash)
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