Come cambiano i loro compiti e la loro funzione
Con il nuovo anno arriva una rivoluzione per i medici di medicina generale e i loro pazienti. Stando al nuovo Acn – il “contratto collettivo” della categoria – non ci saranno infatti più divisioni formali tra medici di famiglia e medici di continuità assistenziale (la ex “guardia medica”). Ma come funzionerà nello specifico questo cambiamento?
Fino ad ora la distinzione tra medico di famiglia e di continuità assistenziale era abbastanza netta: il primo, generalmente attivo da più tempo, si dedicava all’attività di studio, di visite e di gestione quotidiana dei suoi pazienti, mentre il secondo – spesso più vicino all’età della laurea – forniva assistenza sanitaria nel periodo nel quale il primo non era tenuto a farlo. Con il passare del tempo i primi andavano in pensione e i secondi li sostituivano gradualmente, mentre i neolaureati prendevano il posto di questi ultimi. Ma negli ultimi vent’anni il meccanismo si è decisamente inceppato, perché non è stato correttamente conteggiato il saldo tra uscite ed entrate in servizio e soprattutto perché la professione è stata abbandonata a sé stessa, creando disaffezione e mancanza di attrattività. Il risultato? Sempre meno medici di famiglia e sempre meno neolaureati che intraprendono lo stesso percorso – e a pagarne il prezzo per prima è stata proprio la continuità assistenziale, che in tutto il territorio dell’Asl Sud Est è ormai regolarmente scoperta per i mesi più critici. Anche per questo si è deciso di passare al “ruolo unico”: d’ora in avanti ogni medico di famiglia, a seconda del numero di pazienti che ha, dovrà svolgere fino a 38 ore di continuità assistenziale in una Casa di Comunità, ovvero una di quelle strutture intermedie tra ambulatorio medico e pronto soccorso che dovrebbero sorgere in tutta Italia entro il 2026. All’atto pratico chi già è medico di famiglia o sta completando il corso di formazione può scegliere di restare nella sua posizione attuale o di entrare nel ruolo unico, mentre i futuri medici di famiglia dovranno sia fare attività di studio che quella in Casa di Comunità. In questo modo si genereranno fino a 20 milioni di ore di pratica medica l’anno nelle nuove strutture, senza intaccare la natura del rapporto di lavoro o la fiducia reciproca tra medico e paziente.
Si tratta sicuramente di una novità non da poco, e che almeno sulla carta dovrebbe risolvere molti dei problemi attuali della sanità territoriale: il vero interrogativo sono però le Case di Comunità, perché mancano solo due anni al termine dei finanziamenti del Pnrr, e anche perché trasferire troppe attività in questi centri medici (che saranno distribuiti sui territori ogni 50.000 abitanti) rischia di lasciare ancora più scoperti i comuni e le frazioni più remote e disagiate. Le incognite rimangono quindi molte: è però un dato di fatto che con il “ruolo unico” la medicina generale italiana ha nuovamente dato la sua disponibilità per mantenere al passo coi tempi l’assistenza sanitaria di prossimità, senza la quale il servizio sanitario pubblico non potrebbe funzionare.
(Photo credits: Shopify Partners/Burst Photos)
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