Le richieste dei medici per proteggere il servizio sanitario

Dall’atto medico alla riqualificazione delle professione

La scorsa settimana i principali rappresentanti dei medici del nostro paese si sono riuniti per stabilire come agire insieme per tutelare la sanità pubblica italiana. Oltre all’annuncio di una manifestazione unitaria a Roma, prevista per il prossimo maggio, i camici bianchi hanno compilato anche una lista di misure che non possono essere più rimandate: ma quali sono nello specifico?

La prima è una definizione chiara dell’“atto medico”, ovvero il confine di quei compiti che sono preclusi a chi non sia abilitato alla professione. Dato che per ora non esiste una definizione giuridica di atto medico, ma che in compenso molti professionisti rischiano un procedimento penale se si ravvisa uno “sforamento” delle competenze, i medici chiedono innanzitutto che si definisca chiaramente cos’è un atto medico e cosa no, e che venga poi depenalizzato (come del resto è già in quasi tutti i paesi del mondo). La spada di Damocle di un procedimento penale, insieme all’alta litigiosità degli italiani, è infatti un potente disincentivo per molti medici, così come l’altra peculiarità italiana che vede le decine di migliaia di specializzandi attivi negli ospedali come studenti e non come professionisti. Risultato? Molti di questi semplicemente fanno le valigie.
Per la medicina generale invece, che oggi è probabilmente il settore più in crisi della sanità territoriale, si chiedono essenzialmente due cose: di alleggerire il carico burocratico, permettendo ai medici di famiglia di fare i medici e non i “produttori di fogli”, e di valutare attentamente la fattibilità e gli effettivi benefici per i cittadini di una possibile dipendenza. La sburocratizzazione è vitale per quei sempre meno medici che si fanno carico di sempre più pazienti, perché si tratta di un carico di lavoro aggiuntivo che può generale condizioni di lavoro ancora più pesanti, e quindi “burnout” e impossibilità di continuare a esercitare la professione, in una spirale discendente continua. La dipendenza invece è una voce di corridoio che periodicamente riaffiora come panacea per il settore della medicina di famiglia, e anche stavolta si vocifera che il Ministero voglia muoversi in questo senso sfruttando le Case di Comunità costruite con i fondi Pnrr.
Ma al di là della fattibilità di quest’idea, sarebbe davvero un’evoluzione positiva per i cittadini?
Il 70% dei comuni italiani ha meno di 5mila abitanti, e vi vivono oltre 10 milioni di italiani. Per queste persone gli studi dei medici di famiglia sono praticamente l’unico presidio sanitario veramente di prossimità, mentre le Case di Comunità – che verranno distribuite ogni 50mila abitanti – allontanerebbero di molto il paziente dal suo medico di riferimento. Per non parlare poi delle difficoltà giuridiche e previdenziali: i medici di famiglia sono liberi professionisti da quando esiste il sistema sanitario nazionale, e cambiare dall’oggi al domani un profilo lavorativo creerebbe con ogni probabilità anni di complicazioni burocratiche e spese aggiuntive per tutte le parti in causa. Infine, cambiare il rapporto di lavoro dei medici di famiglia significherebbe anche e soprattutto cambiare il rapporto tra il medico e i suoi pazienti, perché non sarebbe più fiduciario (e quindi basato sulla scelta del paziente) ma stabilito dall’alto, con paletti burocratici ancora più rigidi e potenzialmente un’efficienza ancora minore.

La dipendenza, in ultima analisi, sembra essere quella “pietra filosofale” che risolverebbe tutti i problemi della medicina generale: purtroppo però sembra proprio che ne creerebbe altrettanti, se non di più.

(Photo credits: Generated with AI – Created with Microsoft Designer)

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