Dipendenza dei medici di famiglia, basta illazioni

Ancora semplificazioni e manicheismi dal “Dataroom”

Il “Dataroom” di Milena Gabanelli ha dichiarato di aver potuto leggere in anteprima una bozza di riforma che dovrebbe rendere i medici di medicina generale dipendenti del Sistema sanitario nazionale invece che liberi professionisti convenzionati. Finché la proposta non sarà presentata ufficialmente ci sarà poco da discutere, ma c’è molto da dire sul tono e sui contenuti dell’“anteprima” di Gabanelli, presentata sia sul “Corriere della Sera” che nel corso del tg di La7.

La bozza – che sarebbe appoggiata sia dal Ministro della Salute che dalle Regioni – prevede che i medici attualmente convenzionati possano restarlo fino alla pensione, mentre i nuovi sarebbero assunti dal Ssn e dovrebbero garantire la loro attività sia presso i loro studi che presso le Case della Comunità. E qui si sorvola sulla prima questione non secondaria: oggi le spese per gli studi medici e quelle correlate (utenze, strumentazioni, personale di supporto) le pagano i medici, ma se diventassero dipendenti del Ssn chi le pagherebbe? Al momento non è dato sapere, ma su questo il “Dataroom” non si sofferma. Secondo Gabanelli, poi, il rapporto di dipendenza “troverebbe apprezzamento tra i giovani”. La fonte? Un singolo sondaggio su 566 neomedici risalente al 2019, che vedrebbe i sì vincere 49% contro il 43% dei no – non esattamente un plebiscito – e l’esistenza di un “Movimento” indipendente dalle sigle sindacali che si dichiara a favore. Ma i sindacati che riuniscono la stragrande maggioranza dei medici di famiglia si dichiarano contrari, quindi viene il dubbio che si sia voluto sovrastimare la portata delle fonti citate per sostenere una tesi.
Passando poi alle modalità di lavoro dei futuri medici dipendenti, il “numero magico” è 38 ore alla settimana, da suddividere a seconda del numero di assistiti fra studio e Case della Comunità. E il “Dataroom” compara questo numero alle massimo 15 ore di attività in studio che il medico di famiglia deve svolgere per contratto, volendo così far intendere che il carico di lavoro verrebbe raddoppiato. Ma continuare a sostenere oggi che le 15 ore di studio siano le uniche ore di attività di un medico di famiglia vuol dire essere in malafede o non avere idea dei ritmi di lavoro di questi professionisti, visto che proprio i ritmi massacranti imposti dalla burocrazia e dai consulti via mail, telefono e WhatsApp sono una delle cause dell’abbandono della professione. E questo ci porta all’ennesima questione sorvolata dal “Dataroom”: se un medico di famiglia dipendente arriva alla fatidica soglia delle 38 ore che succederà ai pazienti che non avranno ancora ricevuto le cure di cui hanno bisogno e avranno a che fare con un medico irreperibile? Oggi un cittadino può cambiarlo quante volte vuole se non è soddisfatto: ma se questa riforma passasse non potrebbe più farlo, anche perché difficilmente si troverebbe davanti sempre lo stesso nelle Case della Comunità.

Nei fatti, insomma, il “Dataroom” si è prestato a fare da buca delle lettere di non si sa esattamente chi, presumibilmente per valutare le reazioni a questa fantomatica “bozza”: nel farlo, però, ha tralasciato degli aspetti che non sono esattamente secondari per i cittadini, che dall’oggi al domani potrebbero trovarsi a fare i conti con dei professionisti dai ruoli e dai compiti ben diversi da quelli attuali. I rappresentanti dei medici di famiglia italiani non si sono opposti alla novità delle Case di Comunità e della diagnostica di primo livello, e a testimoniarlo c’è il contratto di categoria appena sottoscritto: ma il passaggio alla dipendenza tout court non solo non è la pietra filosofale, ma potrebbe essere l’ennesimo fattore di peggioramento della medicina territoriale.

(Photo credits: Tima Miroshnichenko/Pexels)

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