Perché la “privatizzazione” non riguarda i medici di famiglia
Anche questa settimana il “Dataroom” di Milena Gabanelli è stato dedicato alla medicina generale, nello specifico a un “accordo” tra Fimmg, il principale sindacato dei medici di famiglia, Enpam – la loro cassa di previdenza – e Legacoop per realizzare delle fantomatiche Case di Comunità private. Secondo Gabanelli il disegno dei medici di famiglia sarebbe quello di garantirsi una quota di quella spesa sanitaria che gli italiani sostengono di tasca propria: ma le cose stanno davvero così?
Il “Dataroom” parte dall’affermazione dello svilimento della professione di medico di famiglia, che è indubbio. Negli ultimi dieci anni c’è stato un calo del 20% di medici di famiglia e con questi numeri continuano ad assistere quanti più italiani possibile, ovviamente con aumenti considerevoli di lavoro. Se non è stato previsto un ricambio generazionale e se i medici devono passare una quantità abnorme di tempo dietro alla burocrazia, imposta solo per contenere la spesa, è forse colpa loro? O le responsabilità, piuttosto, sono interamente politiche e amministrative? E se la professione è così facile e redditizia come mai ci sono più posti messi a bando che candidati, e perché circa il 35% di loro abbandona il corso per altre specializzazioni o per l’estero? Inoltre il medico di famiglia è un libero professionista convenzionato e paga di tasca sua tutto ciò che gli serve per lavorare: se fosse un dipendente (e quindi se tutto questo gli dovesse essere fornito dallo Stato) i costi esploderebbero, anche a causa di ferie, malattia, contributi e così via.
Detto questo arriviamo al progetto di Enpam, ovvero l’investimento per la realizzazione di Case di Comunità “spoke”, più piccole e più diffuse sui territori. Saranno un nuovo presidio dopo l’abbandono dei vecchi distretti socio-sanitari e poliambulatori e sono maturate come proposta concreta, realizzabile in tempi brevi e senza risorse pubbliche, perché negli ultimi vent’anni i medici di famiglia si sono organizzati per conto proprio con le loro cooperative, in modo da garantire più presenza sul territorio e potersi dotare di strumenti e personale “mettendo a sistema” le risorse. Circa il 30% di tutti i medici di medicina generale fa parte di una di queste associazioni, che fatturano i propri servizi ai medici soci, non ai cittadini o allo Stato: non erogano prestazioni sanitarie ma garantiscono organizzazione e fattori produttivi.
Non solo non stupisce, quindi, ma è una buona notizia che una cassa dei medici investa sulla professione quotidiana dei suoi membri per dare a loro e ai loro pazienti un vantaggio concreto, perché lo Stato per carenza di risorse potrà con ogni probabilità realizzare solo le Case di Comunità “hub”, ovvero quelle principale e riferite a territori più vasti. A quelle “spoke” dovranno provvedere altri, e i medici intendono intervenire direttamente anche per non essere subordinati ad interessi (magari commerciali) di altri investitori. A crearle e gestirle potranno quindi essere le organizzazioni dei medici di famiglia: ma questi professionisti lavoreranno al loro interno come parte integrante del servizio sanitario nazionale, non certo “privatizzando” il loro ruolo.
Il motivo per il quale i medici di famiglia si sono attivati in questo senso, in verità, è che ancora manca un contratto di categoria che stabilisca chiaramente che ruolo avranno nelle Case di Comunità. Quello a cui fa riferimento il “Dataroom” è infatti relativo al triennio 2019-2021, e nonostante il fatto che i medici di famiglia abbiano già dato la loro disponibilità a lavorare in queste strutture manca ancora l’atto di indirizzo per l’accordo 2022-2024, che spetta alla parte pubblica e che dovrebbe disciplinare una volta per tutte proprio questo aspetto: un atto di indirizzo che quasi tutte le settimane viene sollecitato proprio dalla Fimmg come rappresentante principale dei medici di famiglia.
Gabanelli chiude il suo articolo dicendo che “le necessità dei cittadini ancora una volta vengono dimenticate”: ma da chi? Dai medici di famiglia – che nonostante una situazione lavorativa sempre più difficile si organizzano con mezzi propri per svolgere il loro lavoro in strutture moderne e che sollevino i pronto soccorso dal sovraccarico – o da chi ha deciso una quota del PIL per la spesa sanitaria ben al di sotto della media europea? Dai medici di famiglia, che hanno aumentato il numero di pazienti che possono seguire pur di non lasciare indietro nessuno, o da chi non ha saputo fare i conti tra pensionamenti e nuove entrate in ruolo? Dai medici di famiglia, che tramite il loro rapporto fiduciario coi pazienti e il concetto di presa in carico possono seguire al meglio i pazienti cronici, o da chi non riesce a emettere in tempo i documenti necessari ai rinnovi contrattuali? Chi è che dimentica le necessità dei cittadini, e chi invece le tiene invece a mente?
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